LA TASSAZIONE DEI PROVENTI ILLECITI.

La base imponibile: per il patteggiamento prima e dopo riforma “Cartabia”, e per l’autoriciclaggio.

 

  1. Fonti normative art. 14 comma 4 e 4/Bis della Legge n 537 del 24 dicembre 1993.

2. Non occorre che la sussistenza del delitto presupposto sia accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato. 3. I proventi da attività illecite esclusi dalla base imponibile. 4. Individuazione della somma imponibile così come definita dalla giurisprudenza di legittimità ed in particolare per il c.d. “patteggiamento” e autoriciclaggio.  4.1. Il qualificato pretium sceleris da parte dei giudici di legittimità. 4.2. La giurisprudenza definisce come si individua il “Provento da fatti illeciti. 4.3. La tipologia del provento derivante dalla procedura ex art. 444 del c.p.p. il c.d. “patteggiamento”: I. Effetti sul tributario del patteggiano in vigore prima del 30/12/2022.  II. Con la riforma Cartabia il valore dell’importo del patteggiamento dopo il 30/12/2022.   4.4. La quantificazione per l’illecito profitto da “Autoriciclaggio” ex art. 648/ter.1 c.p. 5. I. Cenni alle problematiche del ne bis in idem per le sanzioni tributarie e penali per lo stesso fatto. II. E’ così scontata l’esclusione ne bis in idem fra sanzioni tributarie e penali? 6. Conclusioni.

 

Gregorio Pietro D’Amato[1]

  1. Fonti normative art. 14 comma 4 e 4/Bis della Legge n. 537 del 24 dicembre 1993.

L’aspetto della tassazione dei redditi di fonte illecita è frutto di un periodo storico in cui sono nati i primi processi avverso i reati di corruzione della c.d. “Tangentopoli” e di cui sono stati forieri di dibatti fra la dottrina e gli arresti giurisprudenziali.

La norma che ha previsto la tassazione da fonte illecita è del 1993 e lo stato attuale delle due disposizioni che stabiliscono la tassazione sono contenute in due commi alla legge e precisamente art. 14 della Legge 537 del 24/12/1993 ai commi:

  • 4.  dove è previsto: Nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (vale a dire i redditi fondiari; di capitale; di lavoro dipendente; di lavoro autonomo;  di impresa;  redditi diversi) i redditi , devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria. In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'articolo 331 del codice di procedura penale per qualsiasi reato da cui possa derivare un provento o vantaggio illecito, anche indiretto, le competenti autorità inquirenti ne danno immediatamente notizia all'Agenzia delle entrate, affinché proceda al conseguente accertamento[2]

Inoltre, l'art. 36, comma 34-bis, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, ha interpretato le disposizioni appena enunciata: “nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi

Il successivo comma 4-bis. - ratione temporis ha invece stabilito che:” Nella determinazione dei redditi di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'articolo 424[3] del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425[4] dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall'articolo 157[5] del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell'articolo 530[6] del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell'articolo 529[7] del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”.[8]

 

2. Non occorre che la sussistenza del delitto presupposto sia accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato.

 Le due norme sopra riportate rappresentano il fulcro della tassazione da profitti da attività illecite.

Da ultimo la Cassazione con sentenza del 13/01/2023 n. 829 nel ribadire che il quadro normativo di riferimento è costituito dalla L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, che, nella formulazione vigente prevede: "Nelle categorie di reddito di cui al testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria".

La suprema Corte ha, altresì, affermato il principio, al quale con il citato arresto ha inteso dare continuità, secondo cui i proventi derivanti da fatti illeciti, qualora non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 1, vanno, comunque, considerati come redditi diversi, in base a quanto espressamente stabilito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 34-bis, norma quest'ultima avente efficacia retroattiva, in quanto interpretazione autentica della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, (Cass., Sez. V, 7 agosto 2009, n. 18111; Cass., Sez. V, 28 dicembre 2017, n. 31026).

Inoltre, la Corte ribadisce il principio che: “non occorre che la sussistenza del delitto presupposto sia accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza (Cass., sez. 5, n. 6093 del 2022)”.

La Corte fa riferimento per il delitto presupposto alla sentenza di Cassazione resa in sede civile n. 6093/2022 la quale a sua volta fa riferimento alla sentenza di Cass. pen., Sez. II, Sent., (data ud. 19/06/2019) 14/10/2019, n. 42052 dove è stato stabilito il principio di diritto con l'affermazione della responsabilità nello specifico per il delitto di ricettazione, di riciclaggio e di autoriciclaggio che non richiede l'accertamento giudiziale della commissione del delitto presupposto, né dei suoi autori, né dell'esatta tipologia del reato, potendo il giudice affermarne l'esistenza attraverso prove logiche (Sez. 2, n. 29685 del 5 luglio 2011: nella specie, la Corte ha ritenuto congruamente provato il delitto presupposto di furto di documenti provenienti da archivi di Stato, in base alle convergenti dichiarazioni di esperti, pur se le denunce di furto erano state presentate successivamente al sequestro dei documenti).

Non è, pertanto, necessario che la sussistenza del delitto presupposto sia stata accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato; basta (come già chiarito dalla dottrina più autorevole e dalla giurisprudenza in relazione al delitto di ricettazione) che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo, e che il giudice procedente (per la ricettazione, per il riciclaggio, per l'autoriciclaggio abbia potuto riconoscere, per quanto interessa il giudizio attuale, la sussistenza del delitto stesso (cfr. in argomento, fra le tante, nell'ambito di un orientamento ormai consolidato, Cass. pen., 16 febbraio 1950, Grassi, in tema di ricettazione, in Giust. pen. 1950, 2, 738).

Pertanto, conclude la Cass. n. 42052/2019 enunciando il seguente principio di diritto:

"In tema di riciclaggio ed autoriciclaggio, non è necessario che la sussistenza del delitto presupposto sia stata accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo, e che il giudice procedente per il riciclaggio ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza; in difetto, venendo meno uno dei presupposti del delitto di riciclaggio, l'imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste".

Il caso affrontato dalla Corte con la sentenza n. 826/2023  riguarda la fattispecie penalmente rilevante dell'appropriazione indebita – per il quale il giudice di 2 grado aveva ritenuto illegittima la ripresa a tassazione di tale somma limitandosi ad osservare che: "la mancata definizione (quanto meno alla data della sentenza di primo grado) della questione penale, non permette(va) di essere certi in ordine all'ammontare da sottoporre a tassazione tra i redditi diversi" a norma della L. n. 537 del 1930, art. 14 non potendosi prescindere, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata di tale norma, "dal giudicato penale (o amministrativo o civile) o quanto meno dalla presenza di elementi che possano supportare adeguatamente l'esistenza dell'illecito che ha dato luogo al provento illecitamente ottenuto".

Ma ciò a detta della Cassazione non è conforme a legge in ossequio del principio di autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale (ex multis, Cass., Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 28174 del 24/11/2017; Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 16262 del 28/06/2017; Cass., sez. 5, n. 16858 del 2021) una valutazione incidentale della sussistenza o meno nei confronti del contribuente degli estremi del reato di appropriazione illecita quale assunta fonte del provento recuperato a tassazione nella categoria dei "redditi diversi”.

 

3.I proventi da attività illecite esclusi dalla base imponibile.

La legge n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, ha previsto che: "Nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria".

Come stabilito dalla Cass. pen., Sez. VI, Sent., (data ud. 30/03/2022) 19/07/2022, n. 28412, si tratta di una disposizione che stabilisce l'imponibilità dei proventi da attività illecita in presenza di due condizioni e, segnatamente, dalla possibilità di ascrizione ad una delle categorie reddituali previste dal sistema delle imposte dei redditi, secondo quanto stabilito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), e dalla mancata soggezione dei proventi illeciti a sequestro o confisca penale.

Sotto il primo profilo, la disposizione non stabilisce una classificazione peculiare dei proventi da attività illecita, bensì li riconduce alle regole ordinarie di identificazione del reddito imponibile (fondiario, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, di impresa, diversi). Con il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 34 bis, convertito dalla L. n. 248 del 2006 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), tuttavia, il legislatore ha ovviato alle oggettive difficoltà di classificazione dei proventi illeciti nelle categorie reddituali delineate dal D.P.R. n. 917 del 1986, stabilendo che "...la disposizione di cui alla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi".

Quanto al secondo profilo, secondo l'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità civile, i proventi da attività illecite sono esclusi dalla base imponibile soltanto qualora il provvedimento ablatorio sia intervenuto nel medesimo periodo d'imposta in cui si è consolidato il reddito (ex multis: Sez. 5 civ., n. 28375 del 05/11/2019); se, infatti, l'ablazione interviene nello stesso periodo di imposta, viene meno il presupposto del possesso del reddito prima dell'insorgenza dell'obbligo dichiarativo. Qualora, invece, si crei una divaricazione di periodo d'imposta tra la percezione del reddito e l'applicazione della confisca o del sequestro, le imposte devono essere versate sui proventi conseguiti dall'illecito penale (Cass. Sez. 6, n. 13936 dell'11/01/2022).

Si è aggiunto che, secondo la costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità civile, l'esclusione originaria dei proventi da attività illecite dalla base imponibile ai sensi della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, ove sottoposti a sequestro o confisca penale, opera a condizione che il provvedimento ablatorio sia intervenuto, al più, entro la fine del periodo di imposta cui il provento si riferisce, e non anche in caso di eventi posteriori alla realizzazione del presupposto impositivo, con i conseguenti obblighi di dichiarazione e di versamento, per i quali si pone solo una questione di diritto al rimborso dell'imposta versata divenuta indebita (ex plurimis, Sez. 5 civ., n. 28375 del 05/11/2019; Sez. 5 civ., n. 28519 del 20/12/2013 ; Sez. 5 civ., n. 869 del 20/01/2010; Sez. 5 civ., n. 7411 del 19/11/2009).

Va detto che con sentenza n. 7337 del 29 novembre 2002, depositata il 13 maggio 2003, la Cassazione ha affermato che: i proventi criminosi sequestrati sono non tassabili solo se il provvedimento ablatorio è intervenuto nello stesso anno d'imposta in cui il provento è stato percepito, entrando nella disponibilità del contribuente. Tale conclusione, secondo la Corte, è coerente con il principio di capacità contributiva (art. 53 della Costituzione) ed è imposta dal principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) tra i percettori di proventi illeciti ed i possessori di redditi leciti, per i quali (in linea generale) i redditi sono esclusi da imposizione solo se perduti nello stesso periodo d'imposta.

Ancora, la Cassazione - Sezione tributaria, sentenza 9 febbraio-4 ottobre 2000, n. 13180, per quanto concerne i proventi da reato ha affermato che la tassazione dei proventi da attività illecite non si arresta neanche al cospetto di una sentenza penale di condanna anche se venisse dimostrato che le somme distratte (è il caso del reato di peculato) non fossero entrate nella disponibilità dell'interessato.

Le somme contestate frutto dell'illecito potrebbero essere determinate con il ricorso a metodi previsti dall'Amministrazione finanziaria quali l'accertamento sintetico-induttivo che nell'ambito fiscale, in ossequio al principio dell'uguaglianza porta a ritenere della reale capacità contributiva.

Sulla scorta della interpretazione della normativa in materia data anche dalla Cassazione, all'Amministrazione finanziaria è di ostacolo all'imposizione fiscale il solo profitto dei proventi illeciti se questi fossero stati: "già sottoposti a sequestro o confisca penale". Cfr Cassazione, Sezione tributaria 23 febbraio-5 giugno 2000, n. 7511 la quale rappresenta che sono questi gli unici provvedimenti che porterebbero ad escludere l'imponibilità.

Con riguardo poi ad eventuale condanna che determini la restituzione o il risarcimento del danno viene fatto osservare a coloro che si oppongono al sistema della imputabilità che due sono le argomentazioni che sgombrano il campo da ogni dubbio ed incertezza: a) la prima deve essere vista sotto l'aspetto cronologico della condanna, b) la seconda con riguardo al dettato specifico della L. n. 537/1993.

Poiché la condanna è sempre un evento successivo al fatto compiuto, l'obbligazione tributaria riveste il carattere di autonomia e ogni forma di condanna non può essere vista come ostacolo all'azione impositiva.

Quanto al secondo punto, basti il richiamo al principio latino id quod lex dixit voluit, id quod non dixit noluit, per mettere in chiara evidenza che la condanna alla restituzione o al risarcimento dei danni non va annoverata tra le cause impeditive o estintive dell'obbligazione tributaria perché la legge non lo prevede specificamente.

Atteso altresì che la Cassazione con le sue molteplici pronunce ha riservato alla legge de quo carattere interpretativo e per l'effetto efficacia retroattiva, sussistono conseguentemente validi motivi per argomentare che i fatti che determinano un profitto economicamente quantificabile non possono godere di nessuna esimente ai fini fiscali.

Pernato avvenendo in anni diversi le imputazioni del profitto e il procedimento oblatorio delle somme sequestrate non vanno detratte le somme versate a titolo di imposta.

Inoltre, per completezza in caso di sequestro del prodotto di reato, nel caso specifico di applicazione delle sanzioni previste dalla legge 231/2001, è intervenuta la Cassazione penale Sez. VI con arresto del 11/01/2022 n. 13936  che ha previsto: “Qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l'Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, non può, dunque, essere mantenuto sull'intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell'imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l'ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall'azione delittuosa (ex plurimis, Sez. 3, n. 20887 del 15/04/2015)”.

In attuazione del principio di proporzionalità della misura cautelare, il giudice può autorizzare il dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per consentire all'ente di pagare le imposte dovute sulle medesime quale profitto di attività illecite, quando l'entità del vincolo reale disposto, pur legittimamente determinato in misura corrispondente al prezzo o al profitto del reato rischi di determinare, anche in ragione dell'incidenza dell'obbligo tributario, già prima della definizione del processo, la cessazione definitiva dell'esercizio dell'attività dell'ente. In tali casi lo svincolo parziale delle somme sequestrate deve ritenersi ammesso alla stringente condizione della dimostrazione di un sequestro finalizzato alla confisca che, nella sua concreta dimensione afflittiva, metta in pericolo la operatività corrente e, dunque, la sussistenza stessa del soggetto economico e comunque al solo limitato fine di pagare il debito tributario, con vincolo espresso di destinazione e pagamento in forme controllate.

E ciò sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare, là dove si renda necessario al fine di evitare, per effetto dell'applicazione del sequestro preventivo e dell'inderogabile incidenza dell'obbligo tributario, la cessazione definitiva dell'esercizio dell'attività dell'ente prima della definizione del processo (Cfr. Cass_13936/2022).

In tali casi, infatti, il sequestro finalizzato alla confisca assolverebbe non solo la propria lecita funzione di apprensione del prezzo o del profitto illecitamente lucrato ai fini della successiva ablazione, ma determinerebbe anche un'esasperata compressione della libertà di esercizio dell'attività d'impresa (art. 41 Cost., art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione Europea), del diritto di proprietà (art. 42 Cost., art. 1 del Prot. n. 1 CEDU), del diritto al lavoro (art. 4 Cost., art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione Europea), mettendo a rischio la stessa esistenza giuridica dell'ente.

Il sequestro finalizzato alla confisca si tradurrebbe, infatti, in una forma di interdizione definitiva dall'attività di cui al D.lgs. n. 231 del 2001, art. 16, comma 3, operante già in sede cautelare e indipendentemente da una affermazione definitiva di responsabilità dell'ente.

In tal modo verrebbero a sovrapporsi indebitamente gli effetti di misure cautelari che, nella trama sistematica del D.lgs. n. 231 del 2001, sono strutturalmente e funzionalmente distinte: quali il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, di cui all'art. 53, e l'interdizione dall'esercizio dell'attività di cui al D.lgs. n. 231 del 2001, art. 9, comma 2, lett. a) e art. 45.

Questa misura interdittiva, peraltro, costituisce l'extrema ratio, in quanto secondo quanto previsto dal D.lgs. n. 231 del 2001, art. 46, comma 3, "può essere disposta in via cautelare soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata".

Il D.lgs. n. 231 del 2001, art. 25, comma 1, in relazione al delitto presupposto di traffico di influenze illecite contestato, peraltro, non ammette l'applicazione di misure interdittive in via cautelare e nel sistema della responsabilità da reato delle persone giuridiche è esclusa l'applicabilità, come misura cautelare, di sanzioni interdittive che non rientrino tra quelle irrogabili in via definitiva all'esito del giudizio di merito (Sez. 2, n. 10500 del 26/02/2007).

 

  1. Individuazione della somma imponibile così come definita dalla giurisprudenza di legittimità ed in particolare per il c.d. “patteggiamento” e autoriciclaggio.
    1. Il qualificato pretium sceleris da parte dei giudici di legittimità.

Uno degli aspetti che non è stato definito dal legislatore e che crea discussione attiene alla quantificazione giuridica dei proventi illeciti che, finora, non è pervenuta, sul piano della teoria generale a conclusioni definitive e soddisfacenti.

Ciò ha dato spazio all’interpretazione del giudice di legittimità alla qualificazione e quantificazione giudica dei proventi illeciti.

Nell’ambito della definizione dell’importo che sarà oggetto di imponibile per la ripresa a tassazione va ricordato l’arresto della Cass. civ., Sez. VI - 5, Ord., (data ud. 14/12/2022) dep. 27/01/2023, n. 2615 che sul punto ha specificamente chiarito richiamando il precedente, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7511 del 05/06/2000, che: "in tema di imposte sui redditi, della L. 24 dicembre 1993, n. 537art. 14, comma 4,  laddove stabilisce che nelle categorie di reddito di cui al D.P.R. n. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, devono intendersi ricompresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, costituisce non soltanto interpretazione autentica della normativa contenuta nel D.P.R. n. 917 del 1986, ma anche criterio ermeneutico decisivo per giungere ad identica conclusione con riguardo alla previgente disciplina del D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 597, artt. 1 e 6, attesa la sostanziale identità della disciplina in ordine alla determinazione dei presupposti della tassazione. Ne consegue che il c.d. "pretium sceleris" si deve considerare come reddito imponibile (anche nel vigore del D.P.R. n. 597 del 1973), e ciò pure se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati".

 

    1.   La giurisprudenza definisce come si individua il “Provento da fatti illeciti”.

In merito alla quantificazione in termini generali del provento che deve essere soggetto al tributo anche in questi termini non vi è una indicazione specifica la L. 24 dicembre 1993, n. 537art. 14, comma 4 laddove stabilisce solo: “ ….i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”

Detta in questi termini di “proventi” va ricordata la stessa Corte di Cassazione con arresto a Sezioni Unite del 27/03/2008 n. 26654 ha dato un’interpretazione sistemica alla individuazione del “profitto[9]  “ma non del provento[10] in termini penalisti. Che in quanto simili i due termini sono leggermente diversi: il primo è ciò che residua dopo la differenza fra entrate d uscite; mentre il secondo è il risultato che si consegue quale fonte di guadagno al netto anche delle imposte da pagare per l’attività imprenditoriale, professionale.

Ed in particolare la Corte specifica quanto al profitto, oggetto della misura ablativa, osserva la Corte che: “non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della relativa nozione né tanto meno una specificazione del tipo di "profitto lordo" o "profitto netto", concetti questi sui quali s'incentra la principale doglianza delle società ricorrenti, ma il termine è utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera meramente enunciativa, assumendo quindi un'ampia "latitudine semantica" da colmare in via interpretativa”.

Nel linguaggio penalistico il termine ha assunto sempre un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non è stato cioè mai inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito.

In particolare, il profitto del reato a cui fa riferimento l'art. 240 c.p., comma 1 va identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al "prodotto" e al "prezzo" del reato. Il prodotto è il risultato empirico dell'illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito. Carattere onnicomprensivo si attribuisce - poi - alla locuzione "provento del reato", che ricomprenderebbe "tutto ciò che deriva dalla commissione del reato" e, quindi, le diverse nozioni di "prodotto", "profitto" e "prezzo" (S.U. 28/4/1999 n. 9).

La nozione di profitto come "vantaggio economico" ritratto dal reato è tradizionalmente presente nella giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. S.U. 3/7/1996 n. 9149, S.U. 24/5/2004 n. 29951,), che, però, ha avuto modo anche di precisare che all'espressione non va attribuito il significato di "utile netto" o di "reddito", ma quello di "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale", a superamento quindi dell'ambiguità che il termine "vantaggio" può ingenerare (cfr. S.U. 24/5/2004 n. 29952, sez. 6^ del 6/5/2003 n. 26747).

Altro principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità e che qui va rappresentato è che il profitto del reato presuppone l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente. Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall'illecito (cfr. le citate sentenze delle S.U.; sez. 2^ 14/6/2006 n. 31988; sez. 6^ del 4/11/2003 n. 46780).

A tale criterio di selezione s'ispira anche la pronuncia delle Sezioni Unite del 25/10/2007 n. 10280, che, con riferimento alla confisca-misura di sicurezza del profitto nel caso di specie della concussione, ha privilegiato - è vero - una nozione di profitto in senso "estensivo", ricomprendendovi anche il bene acquistato col denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, ma ha sottolineato che tale reimpiego è comunque casualmente ricollegabile al reato e al profitto "immediato" dello stesso. Si ribadisce in tale decisione, quindi, la necessità di un rapporto diretto tra profitto e reato, si nega, però, che l'autore di quest'ultimo possa sottrarre il profitto alla misura ablativa ricorrendo all'escamotage di trasformare l'identità storica del medesimo profitto, che rimane comunque individuabile nel frutto del reimpiego, anch'esso causalmente ricollegabile in modo univoco, sulla base di chiari elementi indiziali evincibili dalla concreta fattispecie, all'attività criminosa posta in essere dall'agente.

4.3 La tipologia del provento derivante dalla procedura ex art. 444 del c.p.p. il c.d. “patteggiamento”: I. Effetti sul tributario del patteggiano in vigore prima del 30/12/2022.  II. Con la riforma Cartabia il valore dell’importo del patteggiamento dopo il 30/12/2022.

I. Effetti sul tributario del patteggiano in vigore prima del 30/12/2022.

In merito alle varie tipologie di proventi per le attività illecite che si vanno a determinare, indipendentemente dalla tipologia di reato, ciò che può determinare l’imponile anche in sede tributaria è la procedura processuale con la quantificazione del valore da tassare.

In tal caso è la procedura del patteggiamento previsto dall’art. 444[11] del c.p.p. e concluso prima del 30/12/2022.

Il valore dell’imponibile veniva determinato, anche in questo caso, dalla giurisprudenza con provvedimento curiale della Cass. civ., Sez. V, Ordinanza, 19/10/2022, n. 30807 in cui è stato stabilito che: “sono suscettibili di essere assoggettati a tributo, ai fini delle imposte dirette come indirette, i profitti illecitamente conseguiti, ai sensi dell'art. 14, comma 4, della legge n. 537/1993. In ordine all'ammontare dei profitti illeciti percepiti, rileva quanto accertato in sede penale, rispetto a cui il contribuente non abbia offerto la prova contraria”.

Occorre allora ricordare che la stessa Corte di legittimità ha avuto ripetutamente occasione di chiarire, proponendo un indirizzo interpretativo che è stato confermato, che: "la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd. "patteggiamento") costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale vi abbia prestato fede. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità dell'accertamento", Cass. sez. V, 24.5.2017, n. 13034 ed ancora prima Cass. nn. 2724 del 200119505 del 200324587 del 2010. In proposito appare solo opportuno ricordare che, ai sensi dell'art. 445 c.p.p., comma 1-bis, e prima della sua modifica al 31/12/2022 era previsto all’ultimo periodo: "Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza" di patteggiamento "è equiparata ad una sentenza di condanna".

Infatti, la sentenza penale (v. Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 12/10/2010) 03/12/2010, n. 24587) di applicazione di pena su richiesta ex art. 444 c.p.c., per costante insegnamento della Corte (v. Cass. n. 9358 del 2005n. 18635 del 2006) costituisce a detta dei giudici di legittimità un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, e quindi anche in ambito tributario.

Il caso scrutinato con la sentenza n. 30807/2022 tra origine che la sentenza di applicazione della pena, nel caso di specie, è stata pronunciata per il delitto di truffa aggravata, essendosi il contribuente appropriato di somme di cui aveva la disponibilità, ma che avrebbe però dovuto riversare alla società con cui collaborava. Risultano pertanto integrati, indipendentemente dalla natura fiscale o meno del delitto contestato, gli estremi della percezione di un profitto illecito non dichiarato, e perciò suscettibile di accertamento fiscale.

Rimane da evidenziare che se è sufficiente all'Ente impositore, al fine di provare la responsabilità fiscale del contribuente, fondare l'accertamento su una sentenza penale di patteggiamento, questo non esclude che il contribuente possa invece offrire la prova contraria, come è stato evidenziato dalla Cassazione che ha rappresentato che correttamente era stato opinato dalla CTR che aveva scrutino l’appello e qui non censurato dai giudici di legittimità.

Pertanto, ciò che trovava fondamento – ante 30/12/2022- per l’accertamento tributario era nella sentenza di patteggiamento, nella quale sono specificamente indicate le somme di cui il contribuente si è appropriato, in riferimento a ciascun anno d’imposta mentre l’agente avrebbe dovuto fornire elementi probatori adeguati a dimostrare che si sia appropriato di somme per importo diverso ed inferiore.

II. Con la riforma Cartabia il valore dell’importo del patteggiamento dopo il 30/12/2022.

Il breve excursus precedentemente alla modifica della riforma Cartabia all’art. 445 c.p.p. ci aiuta a porre in evidenza che dal 30 /12/2022 l’aspetto processuale per la determinazione anche per il tributario e come accettato e applicato dalla giurisprudenza sopra citata è radicalmente variato con l’aggiunta all’art. 445 c.p.p[12] del comma 1/bis, (i cui commi 1 e 1-bis sostituiscono l'originario comma 1, già modificato dall'art. 2L. 27 marzo 2001, n. 97, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2L. 12 giugno 2003, n. 134. Successivamente, il presente comma è stato così sostituito dall’art. 25, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, a decorrere dal 30 dicembre 2022, ai sensi di quanto disposto dall'art. 99-bis, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 150/2022, aggiunto dall'art. 6, comma 1, D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199).

Ha previsto al modificato comma 1-bis.: “La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l'accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.

Pertanto, secondo il principio del tempus regict actum per i nuovi patteggiamenti il legislatore ha escluso che quanto stabilito in sede di patteggiamento possa fare da base imponibile per il successivo e “sicuro contenzioso” con l’amministrazione finanziaria per la determinazione della base imponibile per il prelievo previsto dal ricordato art. 14 comma 4 e 4/bis della L 537/92.

Ora si porrà la questione dell’applicazione intertemporale per i procedimenti conclusi ex art. 444, 2 comma c.p.p prima del 30/12/2022, e se vale anche per tale nuova formulazione il principio della norma più favorevole mutuandola, ma non simile al principio penalistico  del favor rei che consentirebbe di abbattere anche i vecchi contenziosi che hanno applicato al tributario quanto determinato quale sorta imponibile per il patteggiamento dalla giurisprudenza di legittimità. 

Su tale punto la prima impressione, salvo che la giurisprudenza e migliore dottrina ci convinca dopo successivi approfondimenti del contrario, in quanto non si è proprio sicuri che ciò non trovi applicazione per i seguenti e sintetici e sommari motivi:

  1. per il principio della norma più favorevole rispetto alla precedente che era più afflittiva anche in ambito processuale estensivo del valore “patteggiato” in sede tributaria, confortato dalla circostanza che prima del 30/12/2022 la determinazione traeva origine solo da una interpretazione giurisprudenziale e non normativa e, quindi,  con la violazione art. 53 Cost.;
  2. con l’intervento normativo specifico si è data una certezza e indicazione da parte del legislatore che non ha efficacia il quantum in sede di patteggiamento così determinato non trovando efficacia contra reum;
  3. se sussiste il “doppio binario”, di cui si dirà infra, allora lo si deve applicare anche in ambito tributario che non può “essere preso” quanto stabilito in sede penale con il patteggiamento o vale solo per l’amministrazione che “prende” quanto stabilito in sede penale e lo ribalta sic e simpliciter in ambito tributario?;
  4.  una interpretazione autentica del legislatore sarebbe auspicabile in special modo per l’applicazione intertemporale per i procedimenti pendenti tributari che hanno preso il valore come determinato dalla giurisprudenza e applicato al processo tributario.

Altra osservazione da farsi con la nuova formulazione è che l’AE, come stabilito dal comma 1/bis: “..la sentenza ..non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari ..” non possa neanche trovare ingresso nel processo tributario con il novellato art. 7 comma 5/bis del D lgs 546/962 secondo cui l’AE dovrà premunirsi di prove diverse rispetto a quelle, che invece, sono servite nella sentenza per giungere al patteggiamento.

Certo la discussione è appena iniziata su tale aspetto e ci si aspetta che si apra un confronto dottrinario e giurisprudenziale ai dubbi sollevati.   

Ed infatti in merito ai dubbi che sono stati appena formulati: in merito all’utilizzabilità anche del materiale probatorio prodotto in sede penale e che si sia concluso con il patteggiamento, la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Piemonte, sentenza n. 57 del 5 maggio 2023 ha stabilito che:  “Il nuovo art. 445 c.p.p., pertanto, si pone nel solco della consolidata giurisprudenza contabile, laddove afferma che la sentenza di patteggiamento, pur non potendosi tecnicamente configurare come una pronuncia di condanna, non preclude al giudice di merito di procedere ad un autonomo accertamento dei fatti su cui si fonda l’imputazione per responsabilità erariale.

Infatti, anche prima della novella, “la natura di piena prova della pronuncia di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. è stata sovente esclusa da questa Corte, che ha costantemente ribadito l’autonomia del giudice erariale nell’apprezzamento dei fatti, ai fini dell’accertamento della responsabilità (C. conti, Sez. I app., sent. n. 25 del 23 gennaio 2023; vedi anche Sez. Lombardia 6 febbraio 2023, n. 20).

Mentre sostiene che, invece, Nessuna discussione può sorgere, da ultimo, quanto all’utilizzabilità del materiale probatorio acquisito in sede penale, essendo la paventata lesione del contraddittorio del tutto inconferente: il materiale prodotto dalla Procura, infatti, può essere liberamente apprezzato dal giudicante in questa sede, dove il contraddittorio ed ogni altro diritto di difesa vengono garantiti al convenuto nel modo più pieno”.

Rappresentando che: “d’altra parte, l’articolo 445, comma 1-bis, c.p.p. parla esclusivamente dell’efficacia della sentenza ex art. 444 c.p.p., senza che da tale norma possa desumersi un effetto estensivo nei confronti del materiale probatorio versato nel procedimento penale. Al fine di incentivare il ricorso allo strumento deflattivo, infatti, il legislatore ha inteso ridurre l’efficacia extra-penale della sentenza di patteggiamento senza, tuttavia, che tale scelta possa estendersi fino all’irrilevanza del materiale probatorio raccolto: un conto, infatti, è negare che la sentenza ex art. 444 c.p.p. possa costituire, essa stessa, accertamento probatorio in altro giudizio; ben altro sarebbe impedire ad un altro giudicante un’autonoma valutazione del materiale probatorio acquisito nelle indagini preliminari, specie quando questa valutazione ha finalità e parametri completamente differenti, con esclusione della violazione del principio del ne bis in idem”.

La norma è stata appena varate e subito il dibattito si è acceso sulla portata estensiva della stessa.

Anche se c’è da osservare che la Core dei Conti parla per così dire di “sussimibilità” delle prove acquisite in quanto nel procedimento della Corte Contabile : “..il contraddittorio ed ogni altro diritto di difesa vengono garantiti al convenuto nel modo più pieno”.

Nel processo tributario invece si ritiene che non vi sia il medesimo diritto di difesa previsto presso la Corte die Conti – tra l’altro più evidente nel processo Contabile vi è la partecipazione del PM, audizione di testi, prove orali e documentali. I due processi sono diversi.

Pertanto, al momento si rimane del modesto ed umile avviso che le prove acquisite in sede penale con la chiusura del procedimento con il patteggiamento ai sensi dell’art. 445, comma 1/bis c.p.p. non hanno la stessa efficacia e non possono essere utilizzate nel processo Tributario.

  

    1. La quantificazione per l’illecito profitto da “Autoriciclaggio” ex art. 648/ter.1[13] c.p.

Il reato di autoriciclaggio di cui all'art. 648-ter. 1 c.p. introdotto solo con la L. 15 dicembre 2014 n. 186 come qualificato dalla Cass. pen., Sez. II, Sent., (data ud. 04/07/2019) 30/10/2019, n. 44198 è il reato che si consuma nel momento in cui l'autore del reato presupposto pone in essere le condotte di impiego, sostituzione o trasformazione del denaro o dei beni costituenti oggetto materiale del delitto presupposto ed è quindi fattispecie essenzialmente istantanea. E prosegue la stessa Corte, del resto, come evincibile dal dato letterale (e come sostenuto da Sez. 2, n. 33074 del 14/07/2016), la norma sull'autoriciclaggio punisce soltanto quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni od altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto che abbiano però la caratteristica precipua di essere idonee ad "ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa".

Il dettato normativo, dunque, induce a ritenere che si tratti di fattispecie di pericolo concreto, dal momento che esso non lascia dubbi circa la necessità che il giudice penale sia costretto a valutare l'idoneità specifica della condotta posta in essere dall'agente ad impedire l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni. Ne consegue, che per la configurabilità del reato di autoriciclaggio, si richiede una condotta dotata di particolare capacità dissimulatoria, idonea a provare che l'autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto attuare un impiego finalizzato ad occultare l'origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto, sicché vengono in rilievo tutte le condotte di sostituzione che avvengono attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita, finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris o "segmento ulteriore" che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dell'occultamento del profitto illecito, penalmente rilevante (cfr., Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018).

Ed ancora la Cass. pen., Sez. II, Sent., (data ud. 21/06/2019) 11/09/2019, n. 37606 in merito alla portata ed al contenuto nell'art. 648-ter.1. c.p., comma 4, stabilisce: "fuori dei casi di cui ai commi precedenti (...), va inteso ed interpretato nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti. Di conseguenza, l'agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa".

La norma, quindi, è chiara nella sua ratio: limitare la non punibilità ai soli casi in cui i beni proventi del delitto restino cristallizzati attraverso la mera utilizzazione o il godimento personale - nella disponibilità dell'agente del reato presupposto, perché solo in tale modo si può realizzare quell'effetto di "sterilizzazione" che impedisce - pena la sanzione penale - la reimmissione nel legale circuito economico; ma la norma è anche sicuramente opportuna, proprio perché, con la tassativa indicazione dei casi di non punibilità, contribuisce a delimitare, in negativo, l'area di operatività di cui al comma 1, che, invece, descrive, in positivo, la condotta punibile (cfr. Sez. 2, n. 30399/2018).

Dal combinato disposto delle due suddette norme così come interpretate dalla Corte con i provvedimenti curiali citati, consegue, quindi, che non può essere calcolato, ai fini del profitto derivante dall'autoriciclaggio, solo ed esclusivamente quel provento derivante dal reato presupposto e che sia stato utilizzato per beni strettamente personali.

Ove non sia possibile identificare tali beni personali (e, quindi, detrarre dal provento del reato presupposto quella somma destinata ad esigenze personali), ed il provento del reato presupposto sia stato investito "in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative" (comma 1), non vi è spazio alcuno per effettuare detrazioni di alcun genere.

Nel caso di specie scrutinato dai Giudici di legittimità, è stato appurato che i proventi del reato presupposto (truffa) venivano reimpiegati per acquistare altri beni (diamanti) che servivano per perpetrare altre truffe: di conseguenza, anche a voler dare per ammesso che una parte dei proventi dei delitti presupposti (truffe) fosse stato reinvestito per le spese di gestione della società, sta di fatto che non possono essere considerate spese destinate "alla mera utilizzazione o al godimento personale" e, quindi, escluse, ex art. 648-ter.1. c.p., comma 4, dal puro reinvestimento di cui al comma 1: infatti, anche le spese di gestione sostenute per il reinvestimento dei proventi illeciti del reato presupposto sono funzionali alla generazione di ulteriore profitto (derivante dal reimpiego del provento del reato presupposto) e, quindi, vanno calcolate nell'attività di impiego, sostituzione, trasferimento "in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative".

Un ulteriore contributo all’indicazioni del quantum da sottoporre a tassazione secondo la L. 537/93, lo hanno fornito sempre i giudici di legittimità con Sentenza Cass. pen, Sez. II, (data ud. 27/01/2023) dep. 07/03/2023 n. 9434 con la quale è stato osservato che la sentenza del tribunale di Appello messa in discussione aveva errato nell'individuazione del profitto confiscabile per il reato di autoriciclaggio, “individuato nel complesso delle somme movimentate tra le società riconducibili al ricorrente tra il 2015 ed il 2017, posto che era stata omessa qualunque analisi sugli effetti in termini di accrescimento patrimoniale per il l’agente a seguito di tali movimentazioni”.

Infatti, la stessa Corte richiama il precedente della stessa Sezione II Penale n. 37606/2019 (ut supra) con la quale aveva già chiarito che: “il prodotto, profitto, prezzo dell'autoriciclaggio non coincide con quello del reato presupposto ma è da questo autonomo in quanto consistente nei proventi conseguiti dall'impiego del prodotto del reato presupposto in attività economiche, finanziarie o speculative”. Posto quindi che il prodotto, profitto o prezzo del reato di autoriciclaggio deve essere qualcosa di ulteriore rispetto al provento del reato presupposto è confiscabile soltanto quanto conseguito in più a seguito dell'impiego del denaro proveniente dal delitto presupposto altrimenti dovendo coincidere il profitto del reato presupposto e quello di cui all'art. 648ter1 c.p.. Mentre prosegue la Corte nell’analisi scrutinata e censurata dalla Corte, il G.I.P. ed il tribunale: “avevano omesso di motivare sul punto, non essendo stati partitamente individuati i proventi conseguiti dall'impiego della somma autoriciclata, avendo confuso e sovrapposto il profitto del reato presupposto e quello di autoriciclaggio e non avendo indicato quale accrescimento patrimoniale con il quale l’agente aveva ottenuto dal reimpiego”.

  1. I .Cenni alle problematiche del ne bis in idem per le sanzioni tributarie e penali per lo stesso fatto. II. E’ così scontata l’esclusione fra sanzioni tributarie e penali?
  1. In maniera del tutto sintetica e per completezza del panorama che l’argomento della tassazione dei proventi da fatti illeciti e diritto tributario pone, vi è ulteriormente la problematica in merito al principio che uno stesso fatto non può essere punito due volte come più volte ripresa dalla Corte EDU.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha posto il problema durante la causa Grande Stevens e altri c. Italia: la corte di Strasburgo dovette pronunciarsi, in data 4 marzo 2014, riguardo la possibile violazione, da parte dell’Italia, dell’art. 4, protocollo 7, sul diritto di non essere giudicato o punito due volte, che lo Stato italiano accettò con riserva, la quale prevedeva l’applicazione di tale articolo solo riguardo procedimenti formalmente penali. 

Successivamente, però, questo passo in avanti è stato mitigato dall’evoluzione del principio del ne bis in idem con la sentenza Grande Stevens, con la successiva sentenza della Grande Camera sul caso A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016.

Anche in questo caso è intervenuta la Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 25/02/2019) 13/03/2019, n. 7131 dove ha stabilito che: “E' corretta la statuizione del giudice tributario d'appello in punto d'inammissibilità, quale questione nuova dedotta per la prima volta con il ricorso in appello, dell'eccezione del contribuente riferita all'inammissibilità delle sanzioni tributarie irrogate con gli avvisi di accertamento impugnati per violazione del divieto del bis in idem con riferimento alla sanzione penale, riferita al medesimo fatto, comminata nel processo penale su richiesta dell'imputato medesimo ex art. 444 c.p.p.”.    In occasione poi di un incontro formativo per magistrati della Scuola Superiore della Magistratura[14] è stato evidenziato dal puntuale relatore che: “in sostanza, analogamente a quanto aveva deciso in precedenza la Terza Sezione Penale della S.C. (Cass. pen., Sez. 3, ud. 22 settembre 2017, dep. 14 febbraio 2018, n. 6693), la Sezione Tributaria, con l’ordinanza 7131/2019, ha fatto applicazione del criterio della “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra procedimento tributario e penale, sancito dalla sentenza Corte EDU, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, n. 24130/11 e 29758/11, a partire dalla quale la giurisprudenza convenzionale ha fatto venire meno il divieto assoluto di doppio procedimento, in presenza, appunto, della close connection dovuta alla complessiva contemporaneità del loro svolgersi.

Pertanto, le sanzioni amministrative tributarie (o finanziarie) che rivelano finalità non solo risarcitoria, ma anche deterrente e punitiva, e sono perciò riconducibili alla “materia penale” (nonostante le controversie fiscali si intendano generalmente sottratte all’applicazione dell’art. 6 CEDU), sono regolate dal principio del ne bis in idem, allorché i fatti, che hanno esposto l’interessato a sanzioni sia amministrative che penali, costituiscano un insieme di circostanze indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio. La reazione coordinata dell’ordinamento interno, che assicuri una connessione “in substance and in time” tra la sanzione penale e la sanzione (formalmente) amministrativo-tributaria (ma sostanzialmente punitiva), secondo gli indici sintomatici elaborati dalla Corte EDU, fonda, dunque, la inoperatività del ne bis in idem”.

  1. E’ ancora possibile mettere in discussione il principio del ne bis in idem delle sanzioni tributarie penali per lo stesso fatto?

Principio che a parere di chi scrive dovrebbe avere un ulteriore scrutino e riflessione dopo le sentenze della Corte giustizia Unione Europea, Grande Sez., 22/03/2022, n. 151/20 di cui con questa interpretazione la Corte di Giustizia Europea ha ritenuto ricordare che il principio del ne bis in idem costituisce un principio fondamentale del diritto dell'Unione (sentenza del 15 ottobre 2002, L.V.M. e a./Commissione, C-238/99 P, C-244/99 P, C-245/99 P, C-247/99 P, da C-250/99 P a C-252/99 P e C-254/99 P, EU:C:2002:582, punto 59), attualmente sancito dall'articolo 50[15] della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Specificando che: “L'articolo 50 della Carta stabilisce che "nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge". Il principio del ne bis in idem vieta quindi un cumulo tanto di procedimenti quanto di sanzioni con natura penale ai sensi del menzionato articolo per gli stessi fatti e nei confronti di una stessa persona (sentenza del 20 marzo 2018, M., C-524/15, EU:C:2018:197, punto 25 e giurisprudenza ivi citata)”.

E quindi occorre che: “Ai fini della valutazione della natura penale dei procedimenti e delle sanzioni di cui trattasi, che spetta al giudice del rinvio effettuare, occorre rammentare che sono rilevanti tre criteri. Il primo consiste nella qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura dell'illecito e il terzo nel grado di severità della sanzione in cui l'interessato rischia di incorrere (v., in tal senso, sentenze del 5 giugno 2012, Bonda, C-489/10, EU:C:2012:319, punto 37, nonché del 20 marzo 2018, M., C-524/15, EU:C:2018:197, punti 26 e 27)”.

Ed ulteriormente ha ribadito che: “occorre sottolineare, a tal riguardo, che l'applicazione dell'articolo 50 della Carta non si limita unicamente ai procedimenti e alle sanzioni qualificati come "penali" dal diritto nazionale, bensì comprende - prescindendo da una siffatta qualificazione in diritto interno - procedimenti e sanzioni che devono essere ritenuti di natura penale sul fondamento dei due ulteriori criteri di cui al punto precedente (v., in tal senso, sentenza del 20 marzo 2018, M., C-524/15, EU:C:2018:197, punto 30)”.

Principio del ne bis in idem è sato oggetto, ulteriormente, di una nuova recentissima interpretazione della Corte giustizia Unione Europea, Sez. V, 23/03/2023, n. 365/21 Incidenter tantum ed in merito alla compatibilità di una dichiarazione nazionale che prevede un’eccezione al principio del ne bis in idem per reati previsti per la costituzione di un’organizzazione criminale[16].

Nell’enunciare il principio interpretativo per la specifica fattispecie ha, altresì, ribadito quali sono le basi giuridico-interpretative europee per tale principio del ne bis in idem. Ha puntualizzato in motivazione che ai fini dell'applicazione del principio del ne bis in idem, l'identità dei fatti materiali deve essere intesa come un insieme di circostanze concrete derivanti da eventi che sono, in sostanza, gli stessi, in quanto coinvolgono lo stesso autore e sono inscindibilmente legati tra loro nel tempo e nello spazio.

E’ previsto dall'articolo 50 della Carta che: “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”. L'applicazione del principio del ne bis in idem è dunque soggetta a una duplice condizione, vale a dire, da un lato, che vi sia una decisione definitiva anteriore (condizione «bis») e, dall'altro, che gli stessi fatti siano oggetto tanto della decisione anteriore quanto del procedimento o della decisione successivi (condizione «idem»). Per quanto attiene, segnatamente, alla condizione “idem”, dalla formulazione stessa di tale articolo 50 discende che esso vieta di perseguire o sanzionare penalmente una stessa persona più di una volta per lo stesso reato.

Il criterio pertinente ai fini della valutazione della sussistenza di uno stesso reato, ai sensi di detto articolo 50, è quello dell'identità dei fatti materiali, inteso come l'esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro che hanno condotto all'assoluzione o alla condanna definitiva dell'interessato. Quindi, tale articolo vieta di infliggere, per fatti identici, più sanzioni di natura penale a seguito di procedimenti differenti svolti a tal fine.

Il principio di proporzionalità richiede che le limitazioni che possono essere apportate, in particolare, da atti del diritto dell'Unione a diritti e a libertà sanciti nella Carta non superino i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti o dell'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva. Inoltre, un obiettivo di interesse generale non può essere perseguito senza tener conto del fatto che esso deve essere conciliato con i diritti fondamentali interessati dalla misura, effettuando un contemperamento equilibrato tra, da un lato, l'obiettivo di interesse generale e, dall'altro, i diritti di cui trattasi, al fine di garantire che gli inconvenienti causati da tale misura non siano sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti. Così, la possibilità di giustificare una limitazione al principio del ne bis in idem garantito dall'articolo 50 della Carta deve essere valutata misurando la gravità dell'ingerenza che una limitazione siffatta comporta, e verificando che l'importanza dell'obiettivo di interesse generale perseguito da tale limitazione sia adeguata a detta gravità.

La qualificazione giuridica dei fatti in diritto nazionale e l'interesse giuridico tutelato non sono rilevanti ai fini della constatazione della sussistenza di uno stesso reato, considerato che la portata della tutela conferita dall'articolo 50 della Carta non può variare da uno Stato membro all'altro. Al riguardo, va precisato che la condizione “idem” esige che i fatti materiali siano identici. Di conseguenza, il principio del ne bis in idem non trova applicazione quando i fatti di cui trattasi non sono identici, bensì soltanto analoghi.

Si deve ricordare che l'articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU recita:

1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato.

2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta.

3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell'articolo 15 della convenzione.”.

La regola ne bis in idem si applica nel diritto dell'Unione (cfr., in una vasta giurisprudenza, la sentenza del 5 maggio 1966, Gutmann/Commissione, cause 18/65 e 35/65, Racc. 1966, pag. 150 e, la sentenza del Tribunale di primo grado del 20 aprile 1999, cause riunite T-305/94 e altre, Limburgse Vinyl Maatschappij NV e a./Commissione, Racc. 1999, pag. II-931).

Va precisato che la regola che vieta il cumulo si riferisce al cumulo di due sanzioni della stessa natura, nella fattispecie penali.

Ai sensi dell'articolo 50, la regola ne bis in idem non si applica solo all'interno della giurisdizione di uno stesso Stato, ma anche tra giurisdizioni di più Stati membri. Ciò corrisponde all'acquis del diritto dell'Unione; cfr. articoli da 54 a 58 della convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen, sentenza della Corte di giustizia, dell’11 febbraio 2003, causa C-187/01 Gözütok (Racc. 2003, pag. I-1345), articolo 7 della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e articolo 10 della convenzione relativa alla lotta contro la corruzione. Le eccezioni, molto limitate, per le quali dette convenzioni consentono agli Stati membri di derogare alla regola ne bis in idem sono disciplinate dalla clausola orizzontale dell'articolo 52, paragrafo 1, sulle limitazioni.

Per quanto riguarda le situazioni contemplate dall'articolo 4 del protocollo 7, vale a dire l'applicazione del principio all'interno di uno Stato membro, il diritto garantito ha lo stesso significato e la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla CEDU.

Pertanto, sia in base all’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU e le richiamate sentenze della Corte CEDU, così come gli ultimi arresti della stessa CEDU per gli anni 2022 e 2023 che hanno più volte ribadito il principio del ne bis in idem, a mio sommesso parere, tale principio deve essere messo in discussione anche dopo la sentenza della Corte costituzionale, Sent., (data ud. 08/11/2022) 22/12/2022, n. 263[17] in quanto, la stessa Corte ha ribadito che: “Questa Corte deve, dunque, assicurare il rispetto degli impegni assunti dallo Stato italiano nei confronti dell'Unione europea e deve, di conseguenza, tutelare gli interessi che la disciplina europea ha inteso proteggere.

Una riflessione ed un approfondimento si ritieni che meriti tale principio alla luce dei nuovi arresti Europei e Costituzionali.

Ed ora anche con la nuova formulazione dell’art. 445 c.p.p. coma 1/bis non trovando efficacia ed essere utilizzatala la sentenza, tra l’altro, nel processo tributario a parere di chi scrive ha aperto la strada ad una valutazione nuova e diversa fra processo tributario e penale. 

 

 
  1. Conclusioni

L’argomento qui trattato in maniera sintetica e, senza pretesa di esaustività, rappresenta ed intende evidenziare come vi è ancora incertezza per l’applicazione della tassazione per proventi illeciti, lasciando così l’art. 14 commi 4 e 4/bis, in parte, quali norme c.d. in bianco non avendo individuato il dato normativo con esattezza quali siano le somme che devono essere considerate per l’assoggettamento a tassazione. Tanto che la giurisprudenza di legittimità ha dovuto porvi rimedio con interpretazioni estensive ed applicative della capacità contributiva che ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, invece, compete al parlamento con le leggi.

Ed oltretutto rimane ancora aperta in dottrina e giurisprudenza la questione del ne bis in idem rispetto al principio interpretato ed offerto dalle sentenze della Corte CEDU sia per quanto riguarda le situazioni contemplate dall'articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sia dall’art.  4 del protocollo 7 della CEDU, vale a dire l'applicazione del principio all'interno di uno Stato membro, che quale diritto garantito ha lo stesso significato e la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla CEDU.

Pertanto, sia in base all’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU e sia per le ivi richiamate sentenze della Corte CEDU, e da ultimo per gli anni 2022 e 2023, che hanno più volte ribadito il principio del ne bis in idem, a modesto parere di chi scrive, tale principio deve essere messo in discussione anche dopo la sentenza della Corte costituzionale Sent., (data ud. 08/11/2022) 22/12/2022, n. 263.

Problematica penale-tributaria a cui fa eco l’ulteriore previsione normativa di cui all'art. 20 del D.lgs. n. 74/2000 in cui è stato riaffermato il principio del “doppio binario”, confermando il superamento della c.d. “pregiudiziale tributaria”, che era stata introdotta dall'art. 21, terzo comma, della legge n. 4/1929 e successivamente abrogata dal D.L. n. 429/1982, convertito dalla legge n. 516/1982. Estendendo la reciproca autonomia dei processi al procedimento amministrativo di accertamento delle violazioni tributarie, il citato art. 20 del D.lgs. n. 74/2000 testualmente stabilisce che: “il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”. A sua volta, l'impossibilità di configurare la pendenza del giudizio tributario quale causa di sospensione del processo penale si evince anche dal combinato disposto degli artt. 3 e 479 c.p.p...

Sarebbe auspicabile che: dopo l’ondata emotiva del periodo, dalla quale è nata la previsione della tassazione dei proventi illeciti- L. 537/93 artt. 4 e 4/bis- possa essere oggetto da parte del legislatore sia di una più puntale indicazione e precisazione del dato testale e imponibile da sottoporre a tassazione, nonché in ottemperanza alla Carta fondamentale dei diritti dell’Uomo, ed alla luce degli arresti sia della Corte di Giustizia Europea e sia della Corte Costituzionale sia valutato come ne bis in idem la statuizione processuale del fatto identico sia in sede penale che tributario.

Un primo rimedio lo si è visto con il novellato art 445 c.p.p. comma 1/bis ma, ciò, solo per il patteggiamento. A volte capita che si arrivi ad assoluzione in sede penalistica per non aver commesso il fatto, mentre, si devono pagare imposte in sede tributaria per il medesimo fatto con violazione, quindi, anche del principio Costituzionale dell’art. 53 della Cost. per la diversità dei due processi. Con il processo penale l’accertamento del fatto è compiuto senza limitazioni di prove. Mentre per il tributario è più limitato; anche se ora le prove fatte valere in sede penale, si ritine con esclusioni del patteggiamento come ivi specificamente stabilito e previsto, sono sussumibili anche in sede tributaria con l’introduzione all’art. 7 del comma 5/bis al D lgs. 546/92[18] :  per l’atto amministrativo fiscale secondo il quale il Giudice deve fondare il giudizio sugli elementi di prova che emergono nel giudizio tributario e che l’amministrazione deve porre a base per sostenere la pretesa impositiva.

 Si potrebbe concludere che quanto rappresentato sia l’inizio che: “Dicendo homines ut dicant efficere solere”[19]

 

 

[1] Direttore Scientifico, dottore commercialista, giornalista.  

[2] Quale ultima versione Comma così modificato dall'art. 3, comma 12, L. 23 dicembre 1996, n. 662.

[3] Art. 424 c.p.p. 1. Subito dopo che è stata dichiarata chiusa la discussione, il giudice procede alla deliberazione pronunciando sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio.

2. Il giudice dà immediata lettura del provvedimento. La lettura equivale a notificazione per le parti presenti.

3. Il provvedimento è immediatamente depositato in cancelleria. Le parti hanno diritto di ottenerne copia.

4. Qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata dei motivi della sentenza di non luogo a procedere, il giudice provvede non oltre il trentesimo giorno da quello della pronuncia 

 

[4] Art. 425 c.p.p. 1. Se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l'azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero quando risulta che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, indicandone la causa nel dispositivo.

2. Ai fini della pronuncia della sentenza di cui al comma 1, il giudice tiene conto delle circostanze attenuanti. Si applicano le disposizioni dell'articolo 69 del codice penale.

3. Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna.

4. Il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

5. Si applicano le disposizioni dell'articolo 537

[5] Art. 157 c.p. La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.

Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell'aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell'aumento massimo di pena previsto per l’aggravante.

Non si applicano le disposizioni dell'articolo 69 e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma.

Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva.

Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni.

I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 375, terzo comma, 449, 589, secondo e terzo comma, e 589-bis, nonché per i reati di cui all'articolo 51 commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale. I termini di cui ai commi che precedono sono altresì raddoppiati per i delitti di cui al titolo VI-bis del libro secondo, per il reato di cui all'articolo 572 e per i reati di cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro II e di cui agli articoli 609-bis, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies, salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell'articolo 609-bis ovvero dal quarto comma dell'articolo 609-quater.

La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall'imputato.

La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti.

 

[6] Art. 530 c.p.p. 1. Se il fatto non sussiste, se l'imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile [c.p. 85, 88, 96, 97] o non punibile per un'altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa nel dispositivo.

2. Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile.

3. Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione [c.p. 50, 51, 52, 53, 54] o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1.

4. Con la sentenza di assoluzione il giudice applica, nei casi previsti dalla legge, le misure di sicurezza.

 

[7] Art. 529 c.p.p. 1. Se l'azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere indicandone la causa nel dispositivo.

2. Il giudice provvede nello stesso modo quando la prova dell'esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria

 

[8] Comma inserito dall'art. 2, comma 8, L. 27 dicembre 2002, n. 289, a decorrere dal 1° gennaio 2003 e, successivamente, così sostituito dall'art. 8, comma 1, D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44; per la disciplina transitoria, vedi l'art. 8, comma 3, del medesimo D.L. 16/2012.

[9] Come definito in enciclopedia Treccani il profitto è: L'utile che si ricava da un'attività imprenditoriale, inteso come eccedenza del totale dei ricavi sul totale dei costi (di una o più operazioni commerciali o finanziarie o dell'intera gestione di un'impresa).

[10] In enciclopedia Treccani il provento è definito: Entrata, utile economico che un ente pubblico o un privato ricavano da qualsiasi fonte di guadagno professione, attività commerciale, beni immobili, imposte ecc.

[11] Art. 444 c.p.p. 1. L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una pena sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria. L'imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato.

1-bis. Sono esclusi dall'applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600-quater, secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, nonché 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell'articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria.

1-ter. Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis del codice penale, l'ammissibilità della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato.

2. Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129, il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, le determinazioni in merito alla confisca, nonché congrue le pene indicate, ne dispone con sentenza l'applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti [c.p.p. 445]. Se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda; l'imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale. Non si applica la disposizione dell'articolo 75, comma 3. Si applica l'articolo 537-bis.

3. La parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia, alla concessione della sospensione condizionale della pena [c.p. 163]. In questo caso il giudice, se ritiene che la sospensione condizionale non può essere concessa, rigetta la richiesta.

3-bis. Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis del codice penale, la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'articolo 317-bis del codice penale ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta.

 

[12] Art. 445 c.p.p. In vigore dal 30 dicembre 2022

1. La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria, non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento [c.p.p. 535, 691] né l'applicazione di pene accessorie [c.p. 19] e di misure di sicurezza [c.p. 215], fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall'articolo 240 del codice penale. Nei casi previsti dal presente comma è fatta salva l'applicazione del comma 1-ter (Gli attuali commi 1 e 1-bis sostituiscono l'originario comma 1, già modificato dall'art. 2L. 27 marzo 2001, n. 97, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2L. 12 giugno 2003, n. 134).

1-bis. La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l'accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna .

 1-ter. Con la sentenza di applicazione della pena di cui all'articolo 444, comma 2, del presente codice per taluno dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis del codice penale, il giudice può applicare le pene accessorie previste dall'articolo 317-bis del codice penale .

2. Il reato è estinto, ove sia stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, se nel termine di cinque anni, quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di due anni, quando la sentenza concerne una contravvenzione, l'imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale, e se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, l'applicazione non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena .

 

[13] Art. 648/ter.1 c.p. Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa.

La pena è della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 2.500 a euro 12.500 quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da contravvenzione punita con l'arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi.

La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni.

Si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all'articolo 416-bis.1.

Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale.

La pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell'esercizio di un'attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale.

La pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l'individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto.

Si applica l'ultimo comma dell'articolo 648.

 

[14] Struttura di formazione decentrata della Corte di cassazione IL DIVIETO DI BIS IN IDEM: PUNTI FERMI E PROFILI  PROBLEMATICI  CORTI NAZIONALI E CORTI SOVRANAZIONALI A CONFRONTO  Roma, mercoledì 19 febbraio 2020 intervento del consigliere dott. Antonio SCARPA.

[15] Art. 50 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge. 

 

[16]  Corte giustizia Unione Europea, Sez. V, 23/03/2023, n. 365/21 ha stabilito il seguente principio: “L'articolo 55, paragrafo 1, lettera b), della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen, in combinato disposto con l'articolo 50 e con l'articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, deve essere interpretato nel senso che:

esso non osta all'interpretazione, da parte dei giudici di uno Stato membro, della dichiarazione effettuata da quest'ultimo ai sensi dell'articolo 55, paragrafo 1, di detta convenzione secondo la quale tale Stato membro non è vincolato dalle disposizioni dell'articolo 54 della convenzione di cui trattasi per quanto riguarda il reato di costituzione di un'organizzazione criminale, qualora l'organizzazione criminale a cui ha partecipato la persona sottoposta a procedimento penale abbia esclusivamente commesso reati contro il patrimonio, purché siffatto procedimento sia volto, tenuto conto degli atti illeciti di tale organizzazione, a sanzionare pregiudizi alla sicurezza o ad altri interessi egualmente essenziali di detto Stato membro”.

Riguardante nello specifico il Protocollo di Schengen del 14 giugno 1985 ratificata dall’Italia con Legge 30/09/1993, n. 388. Ratifica ed esecuzione: a) del  protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all'accordo di  Schengen del 14 giugno 1985 tra i Governi degli Stati dell'Unione economica del  Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese  relativo all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, con due  dichiarazioni comuni; b) dell'accordo di adesione della Repubblica italiana  alla convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione del summenzionato accordo  di Schengen, con allegate due dichiarazioni unilaterali dell'Italia e della  Francia, nonché la convenzione, il relativo atto finale, con annessi l'atto  finale, il processo verbale e la dichiarazione comune dei Ministri e Segretari  di Stato firmati in occasione della firma della citata convenzione del 1990, e  la dichiarazione comune relativa agli articoli 2 e 3 dell'accordo di adesione  summenzionato; c) dell'accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il  Governo della Repubblica francese relativo agli articoli 2 e 3 dell'accordo di  cui alla lettera b); tutti atti firmati a Parigi il 27 novembre 1990. 

 

[17] S.V. anche in questa rivista commento con la sentenza della Corte Costituzionale 263/2022 in applicazione per le SU 19479/2023 “Tutelato il consumatore contro l’esecuzione, anche non opposta e divenuta definitiva, ed anche dopo la vendita, per i contratti -tra l’altro di mutuo, finanziamento e fideiussione- che presentano clausole considerate “abusive” dalle disposizioni e sentenze comunitarie” di G.P. D’Amato.

  Ed in precedenza in questa rivistagiuridicadirittoecrsidimpresa.it aprile 2023 pagg. 79 e segg. di G.P. D’Amato dal titolo “Il consumatore ha sempre diritto alla riduzione del costo totale del credito se restituisce in anticipo il finanziamento”

[18] Art. 7, comma 5/bis: 5-bis. L'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati. Comma aggiunto dall’art. 6, comma 1, L. 31 agosto 2022, n. 130.

[19] Cicerone “di solito, parlando, si spinge a parlare”.